“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Così recita l’articolo 49 della nostra Costituzione.
Sabato 4 maggio 2024 ho aperto l’incontro di Base Politica, il ciclo di incontri del Laboratorio per le Politiche Giovanili con la cittadinanza e i giovani, proprio con queste parole. Bisogna infatti tener presente come i partiti siano i soggetti della politica: dall’articolo si intuisce come questi non siano istituzioni, perché si fondano non sulla funzionalità, ma sulle idee; d’altra parte, non sono nemmeno semplici associazioni, poiché hanno la possibilità di concorrere alla determinazione della politica nazionale.
La Costituzione non usa altre parole, è evidente che cosa sia un partito, e queste poche parole sottolineano come il ruolo dei partiti sia ampio e complicato: di per sé possiede il fine del governo, ma parte dalla libera associazione dei cittadini, quindi da una matrice ideale.
La crisi dei partiti prende le mosse anche dal difficile percorso tra questi due fuochi. Sempre di più, a partire dalle “macchine di clientela” degli anni ’80, la parola partito ha iniziato a perdere la sua forza ideale, dapprima con la crisi – non la fine – delle ideologie (caduta del muro di Berlino e del blocco comunista, incapacità di riforma interna, crisi del centro cristiano-liberale, scissione della destra sociale, etc.), poi con il terremoto giudiziario e politico degli anni ’90 (Mani Pulite e la nascita di Forza Italia) e la nascita del nuovo populismo (il Movimento 5 Stelle alle elezioni del 2013 e la crisi del bipartitismo). Questo ha portato i partiti a diventare sempre di più delle “macchine di governo”, le quali si sono spese per diventare sempre più comprensive e allargando progressivamente le loro basi, evitando ormai qualsiasi forma di scontro all’interno e all’esterno, tentando di imitare l’unità dei blocchi precedenti e di prendersi il centro, rimasto anch’esso senza riferimento, creando un sistema che normalizza matematicamente l’arco costituzionale con i grandi al centro e i piccoli ai lati. Ci si spinge quindi verso il puro lato amministrativo, cioè il fine di un partito, dimenticando però cosa lo crea, cioè le idee.
Infatti, il punto più decisivo della crisi dei partiti è proprio questo, sta iniziando a venir meno il motivo di quella “libera associazione” poiché non ci sono le idee che spingono l’azione politica. In poche parole, non si risponde alla domanda “perché?”. Ciascun partito della prima repubblica, dovendo rappresentare le coscienze di un paese distrutto, aveva dietro di sé un’idea costitutiva che spaziava dalla sociologia alla religione, dovendo fornire risposte per domande, dubbi e problemi che ci avrebbero seguito per generazioni. Non bastava capire cosa finanziare, era necessario capire anche perché finanziare. Erano quindi formazioni che concorrevano per il governo del paese, ma con lo scopo primario di applicare quelle idee, e sebbene anche questo principio sia stato alle volte disatteso, quantomeno nelle basi dei partiti era così: partecipo ad un partito perché ho un’idea, non solo perché vinca.
Da qui però si presenta l’opportunità: la nostra generazione (quelli nati dopo gli anni 2000), così come la nostra epoca, è piena di dinamiche nuove, che portano al risultato finale dell’individualizzazione. Più connessi, eppure sempre più soli. Non è tanto il lato dell’aggregazione che i partiti devono prendere su di sé, poiché l’evoluzione del tessuto civico ha portato alla nascita di enti nuovi e impensabili fino a pochi decenni fa, la cui funzione aggregatrice era una volta dei partiti, insieme a nuovi tipi di interazione e mezzi di comunicazione. Bisogna ripartire dal primo passo: quali sono le idee che ci spingono ad associarci in un partito?
L’occasione sta nel vuoto di risposte da parte della politica degli ultimi anni su questioni primarie che ormai scendono appunto fino all’individuo stesso, come la salute mentale, il welfare di comunità, il confronto con l’altro e soprattutto il nostro modello produttivo. Ripartire da qui significa costruire nuove idee che fungano da direttrici, non abbandonando il dialogo in favore della regola, bensì abbandonando la regola del “non ci sono regole”. Bisogna sapere se la salute mentale di un lavoratore viene prima del suo lavoro, se e in che misura gli enti privati devono sopperire alle mancanze del pubblico, se ci sono regole nel confronto politico o se vale tutto per difendere la propria idea e che ruolo svolge la comunicazione in tutto ciò e, soprattutto, se i progetti economici, scientifici e tecnologici che finanziamo sono indirizzati ad un fine o se il solo fine è il fatto che funzionino.
Ciò non significa lasciare indietro il passato, ma riprendere da dove ci eravamo fermati: ragionare su come il cristianesimo sociale sia fondamentale per comprendere circa un giovane su due, su come il liberalismo ci possa aiutare a capire la nostra etica, su come il socialismo ci aiuti a capire in che rapporto siamo con il nostro sistema economico e su come il “realizzarsi attraverso la libera attività” del Manifesto del Partito comunista sia più attuale che mai per capire che strada percorrere per il futuro.
Flavio Barbaro