L’Etruria

Redazione

Lo schiaffo del Governo  alla Chiesa cattolica.

I commenti sui social e quelli di alcuni sacerdoti aretini e cortonesi

Lo schiaffo del Governo  alla Chiesa cattolica.

Domenica 26 aprile il Governo italiano, nella consueta conferenza stampa del premier, ha dato diversi schiaffi. Un grosso ceffone l' ha mollato anche alla Chiesa cattolica. La cosa ha provocato diverse reazioni e la stessa CEI (Conferenza episcopale italiana) ha protestato con un durissimo, inusuale comunicato stampa. Le polemiche sono quindi divampate nei media, ma soprattutto sui social.

Sui social, infatti, si è molto dibattuto, a partire da lunedì scorso, sulla protesta della Cei nei confronti del Governo a seguito del mantenimento del divieto nella Fase-2 di celebrare la Santa Messa o funzioni religiose con presenza di fedeli seppur contingentati e rispettosi di giuste regole sanitarie in atto, come quelle  per andare a far spesa o al lavoro o fare una passeggiata in strada o nei parchi.

In molti si sono scatenati contro i credenti con frasi  arroganti e talora ingiuriose e comunque con toni laicisti, ateisti e da Stato primo etico. “Statevene a casa vostra e pregate quanto vi pare”: è una delle tante espressioni  lette sui social da domenica 26 aprile in poi . Una frase che,nella sua cogenza imperativa e farneticante, la dice lunga sul senso di democrazia e di libertà costituzionale, oltre che di diritto  naturale, della  canea neoliberista italiana.

Un  post di  risposta   non polemica a queste espressioni, a dir poco arroganti, ha avuto tanti commenti favorevoli, ma altrettanti pieni di contestazione laicista e di supponenza individualistica. Lo riporto integralmente : "ma un pensiero, seppur in maniera molto educata vorrei esprimerlo... Buonsenso vo cercando... Quindi in dieci si può entrare in un supermercato e in dieci non si può entrare in una grande chiesa... In uno o due si può entrare in un piccolo negozio, in uno o due non si può entrare in una piccola chiesa... All' aperto si può fare una fila di cento persone stando ad un metro di distanza, in un piazzale o in un prato stando ad un metro e ottanta non si può partecipare ad una celebrazione religiosa? Dove è la ratio o il buonsenso? A pensar male si fa peccato ma qui qualcosa... non torna.... Speriamo che gatta non ci covi".

Non miglior sorte è toccata ad un altro post pubblicato dopo le parole del Papa dette all’inizio della Santa Messa del 28 aprile in Santa Marta. Post breve e lineare che pure  riporto integralmente: “Attenzione. Il Papa ha detto: prudenza ed obbedienza alle norme sanitarie, ma nel rispetto del principio cavouriano di  Libera Chiesa in Libero Stato, e non ha detto, come qua e là in molti post si vorrebbe far credere: no alla Messa nelle Chiese..... Altrimenti , come vescovo di Roma, non potrebbe celebrare nemmeno lui la Santa Messa nelle chiese di Roma, come ha fatto l'altra domenica.
Io credo che vada dato sempre a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio....
La nota della Cei è più che giustificata.... Non chiede messe da bagni di folla , ma che sia data la possibilità alle persone che credono di poter andare in chiesa, rispettando tutte le norme sanitarie stabilite dai protocolli e di non limitare i diritti religiosi ( anche di altre religioni,cioè) ai credenti....
Insomma, applicare per andare in chiesa le stesse regole che vigono per entrare in un supermercato o in una grande e piccola fabbrica.
Permettere dieci minuti di preghiera singola o distanziata a secondo della grandezza di una chiesa non significa certamente permettere abusi o attentati alla salute generale. Così come non è attentato il portare da solo un fiore sulla tomba dei propri cari. Altrimenti chi va a fare una passeggiata per strada o al parco, appena riaprono, compie attentato ? ..Buosenso vo cercando!

Tra i tanti commenti (a favore o contro) ricevuti da questi due post, ne riporto  alcuni positivi fatti da sacerdoti cortonesi ed aretini . Primo commento: “Il Governo non autorizza la riapertura del Culto... Decisione ispirata dal "comitato tecnico- scientifico" nonostante settimane di negoziato che hanno visto la Cei presentare Orientamenti e Protocolli con cui affrontare la nuova fase transitoria nel rispetto di tutte le norme sanitarie. Non dubito del fatto che l'intenzione fondamentale del governo sia di tutelare la salute dei cittadini evitando l'aumento dei contagi. Però mi sembra contradditorio che si dica di NO alla Messa con partecipazione dei fedeli (consentite solo  cerimonie funebre, fuori della chiesa e con 15 parenti massimo) pur rispettando le disposizioni di tutela sanitaria, mentre si continua ad assistere alle lunghe file di gente nei supermercati. Questo mi sembra l'ennesimo segno di una società che si omologa ad una cultura atea e al materialismo pratico. Chi è la persona? È una entità somatica che vive solo di pane materiale? È veramente  triste quando la persona umana viene ridotta ad un fascio di bisogni. È solo un corpo che mangia, beve....per mantenersi in vita, ma non si pensa che è anche un"anima che abbia bisogno di nutrimento  spirituale, il quale gli garantisce una forza interiore per affrontare varie dinamiche della vita come questo momento difficile.  Nella ricerca delle soluzioni al problema Covid-19, che colpisce  attualmente l'umanità, la Chiesa non discute dell'attenzione che si dà alla salute dell'Uomo e all' economia, però chiede di  non trascurare o almeno rispettare la dimensione spirituale che caratterizza il suo essere persona.  Una società che relega in secondo piano Dio e la dimensione trascendente della persona è da paragonare all'Impero Romano, che, come ha scritto Papa Ratzinger,  ‘funzionava ancora come grande cornice storica, ma in pratica viveva già di quelli che dovevano dissolverlo, poiché esso stesso non aveva più alcuna energia vitale’ . ‘Resta con noi Signore, si fa sera e il giorno ormai volge al declino’ ".( Don S.)

Secondo commento : “ Questo divieto sistematico alle celebrazioni religiose lascia pensare che qualcosa di strano stia avvenendo in Italia” ( Don F.)

Terzo Commento : “ Certamente a Bergamo e dintorni  è ancora presto riaprire ai fedeli le chiese, ma dove non esiste quella drammatica emergenza che senso ha impedire le celebrazione delle messe , seguendo  le dovute  regole che vengono date in  altri campi come quello dell’andare ai supermercati? E’ forse più importante il consumismo e il commercio della cura spirituale dell’anima? Uno stato primo etico fa paura” ( Don G.)

Non essendoci bisogno di illustrare questi chiari commenti dei nostri bravi parroci cortonesi ed aretini, mi limito ad una considerazione conclusiva : forse il governo e il cosiddetto comitato scientifico dei diciassette hanno voluto legiferare pensando al 4 maggio 1630 quando i magistrati dell’allora governo milanese chiesero al cardinal Federigo Borromeo di indire una solenne processione per portare il corpo di San Carlo per le strade di Milano onde far cessare la peste, che invece subito dopo aumentò?

Beh, se così fosse non saremmo messi bene in quel di Roma. Anche mio zio di 89 anni (che ha solo la terza elementare e che ,ringraziando Dio,sta bene) sa  che da allora son passati quasi quattrocento anni e che gli untori di allora, che  furono vittime di giudizi sommari e di torture da colonna infame, non esistono e che ogni ammalato ha diritto alla sua dignità di persona , ai suoi diritti umani. Dignità e diritti che spesso  oggi, nonostante una scienza medica che si è fatta in quattro per curare un male sconosciuto , vengono negati agli ammalati di Covid. Ammalati che non è possibile chiamare  untori come la paura e il terrore degli  ignoranti , alimentato da norme di stato di polizia, vorrebbe invece imporre in barba alla legge costituzionale che regola la vita della repubblica italiana.

Comunque, come Post – Scriptum, per saperne di più, per coloro che vogliono approfondire l’argomento degli untori e della peste raccontati dal Manzoni riporto qui, dopo la firma,un lungo  riassunto e commento  di autore ignoto su quelle vicende milanesi del 1600. Nella foto di corredo, la Dimora del diavolo, piena di unguenti  per diffondere la peste e di soldi facili per gli untori, in una illustrazione del 1800.

Ivo Camerini 

PS:

La processione indetta dal cardinal Borromeo

L'epidemia continua a diffondersi a Milano e il 4 maggio 1630 i magistrati cittadini decidono di rivolgersi al governatore, nel frattempo ripartito a porre l'assedio a Casale. Due emissari lo raggiungono sul campo di battaglia e gli chiedono provvedimenti fiscali urgenti per far fronte all'emergenza, tra cui la sospensione delle imposte governative e la cessazione di nuovi alloggiamenti militari, pregandolo inoltre di informare il re della situazione. I magistrati di Milano prendono anche un'altra decisione, ovvero chiedere al cardinal Borromeo di indire una processione solenne per portare il corpo di S. Carlo per le vie della città, al fine di stornare la minaccia della peste. Federigo sulle prime rifiuta, dal momento che, in caso di insuccesso, la cittadinanza potrebbe perdere la propria fiducia nella protezione del santo, inoltre teme che il radunarsi della folla dia modo ai cosiddetti "untori" di spargere più facilmente le loro sostanze venefiche, ammesso che tali personaggi esistano, mentre in ogni caso l'afflusso di gente per le strade aumenterebbe il rischio di contagio. A Milano infatti il sospetto delle "unzioni" è tornato a diffondersi e molti credono di vedere le mura e gli usci delle case imbrattati da strane sostanze, per cui tali notizie volano di bocca in bocca e ben presto tutti o quasi sono convinti dell'esistenza degli untori, cosa che accresce il furore popolare. Si pensa che gli unguenti venefici siano composti di rospi, serpenti, bava degli appestati, che gli untori si servano di incantesimi e magie; le prime unzioni non avevano dato effetto solo perché gli scellerati non erano ancora esperti, trattandosi delle prime prove. Nessuno osa negare apertamente che esista una sorta di complotto per spargere la peste, chi lo facesse passerebbe per pazzo o, peggio, per complice degli untori. I cittadini iniziano a sospettare di chiunque e, ben presto, si verificano i primi casi di linciaggio e di giustizia sommaria.

Il Tribunale di Sanità, pensando al rischio del contagio, non oppone alcuna obiezione alla processione e si limita a prescrivere regole più restrittive per l'ingresso in città dall'esterno e ordina di inchiodare gli usci delle case dei malati di peste, per impedire agli infetti di mescolarsi alla folla. Dopo tre giorni di preparativi, l'11 giugno 1630 la processione si avvia dal duomo alle prime luci dell'alba, preceduta da una lunga schiera di popolani tra cui molte donne; seguono le corporazioni cittadine coi loro gonfaloni, gli ordini monastici, i preti che portano in mano una torcia; in mezzo, portata da quattro canonici, avanza la cassa contenente le spoglie di S. Carlo Borromeo, in cui si intravede il corpo vestito di splendidi abiti e il teschio con la mitra, con alcune fattezze che ancora ricordano l'aspetto del santo quale appare nei dipinti d'epoca. Dietro la reliquia segue il cardinal Federigo e il resto del clero, quindi i magistrati e i nobili, alcuni dei quali vestiti con sfarzo e altri, al contrario, che indossano cappe nere col cappuccio sul viso, in segno di penitenza. Il corteo è chiuso da una coda di popolani e avanza tra le strade parate a festa, con le case abbellite da stemmi, fiori, oggetti variopinti; molti malati sequestrati in casa osservano la processione dalle finestre, mentre le altre vie restano in silenzio, con un'atmosfera quasi spettrale. La processione passa per quasi tutti i quartieri di Milano e compie delle soste nei carrobi (i crocicchi delle strade) per deporre la cassa con la reliquia accanto alle croci erette al tempo della peste del 1576, per cui il corteo ritorna in duomo quando mezzogiorno è passato da un pezzo.

La furia del contagio aumenta

Fin dal giorno successivo alla processione, che secondo molti dovrebbe aver fatto cessare la peste, al contrario il contagio cresce furiosamente in ogni punto della città e in ogni classe sociale, in modo così repentino che nessuno può dubitare che la causa sia stata la processione medesima. Tuttavia ciò viene attribuito dai più non al concorso di folla che ha moltiplicato le occasioni di contatto e diffusione del morbo, bensì all'azione degli untori che avrebbero approfittato della ressa per spargere con maggiore facilità i loro unguenti malefici; e poiché nessuno ha visto nel corteo macchie di unto sui muri né altrove, si pensa che gli untori abbiano sparso delle polveri venefiche e che queste, attaccatesi ai vestiti e ai piedi scalzi di molti partecipanti al corteo, abbiano contribuito alla diffusione più virulenta e micidiale della peste. Sta di fatto che da questo momento la furia del contagio cresce ogni giorno di più e la peste miete vittime in tutte le case, mentre la popolazione del lazzaretto cresce da duemila a dodicimila persone e la mortalità ai primi di luglio tocca il numero di cinquecento decessi al giorno. Più avanti, quando l'epidemia toccherà il suo apice, i morti giornalieri saranno più di mille e alla fine la popolazione milanese scenderà da da circa duecentocinquantamila abitanti a poco più di sessantamila, anche se - avverte il narratore - queste cifre sono da considerare con grande cautela data la loro poca attendibilità.

In una situazione simile il compito dei magistrati cittadini è a dir poco arduo, poiché essi debbono senza molti mezzi provvedere alle tante necessità e, ad esempio, sostituire spesso i funzionari che si occupano dell'assistenza ai malati e di altre incombenze inerenti la malattia, tra cui monatti, apparitori, commissari. I primi sono coloro che portano via i cadaveri dalle case per seppellirli, che conducono i malati al lazzaretto e ne bruciano i vestiti infetti, quindi svolgono le attività più pericolose (il loro nome è di origine incerta e forse, secondo l'autore, deriva dal tedesco monathlich, "mensuale", poiché venivano assunti di mese in mese). Gli apparitori invece precedono i carri dei morti e suonano un campanello per avvertire i passanti di star lontano, mentre i commissari sono i funzionari della Sanità che hanno il compito di sovrintendere agli uni e agli altri. Tra le molte necessità vi è quella di rifornire il lazzaretto di medici, di farmaci, di vitto, preparare nuovi spazi per accogliere i malati in numero sempre crescente; a tale scopo vengono erette alla meglio delle capanne nello spiazzo centrale del lazzaretto e se ne costruisce un secondo, circondato da un semplice asse di legno, in grado di ospitare quattromila persone. Si pensa di costruire altri due luoghi simili, ma il progetto viene abbandonato per la mancanza di denaro. La situazione peggiora di giorno in giorno e si arriva al punto che non si è in grado di provvedere a molte necessità, per esempio molti bambini rimasti orfani muoiono perché nessuno è in grado di occuparsene. I magistrati cittadini fanno ciò che possono, ma il loro impegno è sterile anche per la mancanza di mezzi finanziari, dal momento che il governatore, impegnato nell'assedio di Casale, usa tutto il denaro disponibile per le paghe dei soldati e si disinteressa di fatto alle sorti della città sconvolta dalla peste.

L'impegno degli ecclesiastici nell'assistenza ai malati

Fra i bisogni della città c'è anche quello, penosissimo, di dare sepoltura ai morti: l'unica fossa scavata vicino al lazzaretto rimane colma e i morti restano insepolti in ogni parte della città, per cui i magistrati non sanno a chi rivolgersi per compiere quel triste compito. Il presidente del Tribunale di Sanità chiede allora aiuto ai frati cappuccini che governano il lazzaretto e padre Michele si impegna a provvedere alla necessità nel giro di quattro giorni. Il frate si reca con un confratello e alcuni funzionari della Sanità nel contado e, valendosi dell'autorità del proprio abito, raduna circa duecento contadini disposti a scavare fosse; conclusa questa operazione, i monatti raccolgono i cadaveri e li portano per la sepoltura, cosicché la promessa di padre Michele è mantenuta. In un'altra occasione il lazzaretto si trova senza medici e ne vengono reclutati altri grazie a notevoli offerte di denaro, non senza fatica; quando scarseggiano i viveri, al punto che i malati rischiano di morire di fame, supplisce la carità privata di alcuni cittadini, poiché nelle gravi calamità - osserva il narratore - non mancano mai quelli che mantengono intatto il coraggio e compiono fino in fondo il proprio dovere, oppure assumono incarichi che non gli competono in forza della carità cristiana e dell'amore per il prossimo. Grandissimo è poi l'impegno di tutti gli ecclesiastici, che non cessano mai di assistere i malati, di portar loro i conforti spirituali e materiali, per cui più di sessanta parroci di Milano cadono vittime del contagio e muoiono.

La delinquenza e la sopraffazione nel momento delle disgrazie

Nei disastri pubblici ci sono spesso esempi di carità e benevolenza, ma ce ne sono purtroppo anche molti di segno opposto ed è il caso della peste a Milano: molti criminali approfittano della debolezza delle pubbliche autorità per spadroneggiare e tra questi vi sono gli stessi monatti e gli apparitori, normalmente reclutati tra i peggiori individui che accettano questo tremendo lavoro allettati dalle possibilità di rubare e saccheggiare. Specialmente i monatti, quando la situazione diventa insostenibile per il diffondersi del contagio e i commissari di Sanità non riescono più a controllare il loro operato, diventano i padroni delle strade e approfittano della peste per compiere ogni sorta di abusi, saccheggiando le case dei malati, minacciando di portare i sani al lazzaretto se questi non pagano un riscatto, facendosi pagare a caro prezzo i loro servizi quando, ad esempio, devono portar via i cadaveri putrefatti. I monatti sono sospettati addirittura di lasciar cadere apposta dai carri cenci infetti per spargere la peste e prolungare quell'occasione di guadagno, mentre è certo che alcuni fingono di ricoprire quel ruolo portando un campanello al piede (come è prescritto ai monatti per avvisare che del loro avvicinarsi) e ne approfittano per entrare nelle case e farla da padroni. Le abitazioni vuote o abitate da malati vengono saccheggiate dai ladri e, spesso, la stessa cosa viene fatta anche dai "birri" conniventi con i peggiori criminali.

La paura degli untori alimenta il sospetto

Insieme alla malvagità aumenta anche la follia, specie il terrore degli untori che non accenna a placarsi e, anzi, alimenta nuove paure e nuovi vaneggiamenti tra la popolazione milanese. Il Ripamonti osserva nella sua storia della peste che la paura degli untori fa vivere tutti nel sospetto reciproco e si comincia a diffidare degli amici, dei parenti stretti, persino del proprio padre o figlio, persino del coniuge. Se al principio si credeva che gli untori agissero per denaro o dietro la promessa di onori, adesso si è convinti che essi siano spinti da una volontà diabolica, per incarico dello stesso demonio; i vaneggiamenti degli ammalati, che nel delirio accusano se stessi di aver fatto ciò che temevano facessero gli altri, i loro gesti inconsulti, tutto alimenta la certezza che gli untori esistano, non diversamente dai processi per stregoneria in cui, non di rado, gli accusati confessano crimini mai commessi in modo spontaneo e senza subire la tortura, semplicemente perché la superstizione li ha convinti che certi atti siano possibili a tutti, quindi anche a loro stessi.

Leggende e assurde invenzioni sugli untori

Tra le leggende che la paura degli untori diffonde a Milano ce n'è una che merita di essere ricordata, se non altro per la rinomanza che acquista all'epoca: si racconta che un tale, passando sulla piazza del Duomo, vede arrivare una carrozza trainata da sei cavalli, con all'interno un uomo dal volto acceso, i capelli dritti e il viso minaccioso. La carrozza si ferma e il cocchiere invita a salire il passante, il quale è soggiogato e non può rifiutare. Viene condotto in un palazzo che mostra all'interno deserti e giardini, caverne e sale, nonché spettri e fantasmi; gli vengono mostrate casse piene di denaro e viene invitato a prenderne quanto ne vuole, a patto però che accetti un vasetto di unguento e che si impegni a imbrattare con esso i muri della città. L'uomo rifiuta e, prodigiosamente, si ritrova subito nel luogo dove era stato prelevato. Questa assurda favola circola non solo a Milano ma in tutta Italia e anche all'estero; in Germania si realizza una stampa che raffigura la vicenda e l'elettore arcivescovo di Magonza scrive addirittura al cardinal Borromeo per chiedergli se c'è qualcosa di vero in quel racconto, ricevendo come risposta che ovviamente sono tutte assurdità.

Vaneggiamenti dei dotti sulla peste

Non solo il popolo farnetica a proposito della peste e degli untori, ma vaneggiamenti simili circolano anche fra i dotti e provocano danni ancora peggiori: molti studiosi infatti credono che l'epidemia sia stata causata da una cometa apparsa nel 1628 e da una congiunzione astrale di pianeti, foriera di terribili calamità, mentre un'altra cometa, apparsa nello stesso 1630, sembra confermare l'infausta previsione. Scrittori antichi e moderni vengono citati a sostegno di varie teorie, inclusa quella sugli untori, e fra questi specialmente gli autori di libri e trattati di magia nera, nel Seicento tanto di moda tra i dotti; tra essi spicca Martino Delrio, autore di Disquisizioni magiche divenute poi il testo più autorevole in fatto di pratiche magiche, fonte di torture e processi per stregoneria ai tempi dell'Inquisizione (il narratore osserva che l'opera funesta di Delrio è costata la vita a moltissime persone e se la fama di uno scrittore si dovesse misurare col bene o col male prodotto, egli sarebbe tra i più celebri). Persino i medici avvalorano l'ipotesi dell'esistenza degli untori e fra questi il Tadino, che pure era stato tra i primi a mettere in guardia sul rischio del contagio e che ora, invece, sostiene la veridicità delle unzioni prendendo come prova le farneticazioni dei malati nel delirio, come l'assurda storia di un appestato che aveva visto in camera un'apparizione diabolica e gli era stata promessa la guarigione e danari, se avesse accettato di ungere le case (al suo rifiuto, erano apparsi un lupo e tre gatti, animali diabolici). Del resto il Tadino, uno degli studiosi più rinomati del suo tempo, non è l'unico a ragionare in tal modo e si può concludere che la follia degli untori coinvolge ormai l'intera popolazione milanese, dai più umili ai più assennati.

 

Opinioni illustri sugli untori: Borromeo e Muratori

Secondo alcuni, il cardinal Borromeo avrebbe dubitato della realtà degli untori: Manzoni vorrebbe poter dire che Federigo, in questa come in altre cose, si distingueva dai contemporanei, invece purtroppo è costretto ad ammettere che il prelato subiva la forza del pregiudizio e se anche riteneva che ci fosse molto di esagerato nella paura degli untori, pure ammetteva che il fatto avesse un fondo di verità (ciò è dimostrato da un'operetta da lui scritta sulla peste e tuttora conservata alla Biblioteca Ambrosiana di Milano). Molti all'epoca ritenevano che la storia delle unzioni non fosse reale, tuttavia non osarono mai dirlo apertamente e noi conosciamo la loro opinione grazie a quegli autori che la deridono o a quelli che citano tali posizioni in quanto riportate dalla tradizione: tra questi Ludovico Antonio Muratori in uno scritto sulla peste del 1714, lo stesso in cui pure accenna all'opinione in merito del Borromeo. Il buon senso, conclude Manzoni, c'era ancora in molte persone, ma stava nascosto per timore del senso comune, del pregiudizio che ormai dominava incontrastato nelle menti della maggioranza.

I processi contro gli untori e la "Colonna infame"

I magistrati, man mano che il contagio cresce e miete sempre più vittime, iniziano a usare le poche energie residue per dare la caccia agli untori e in alcuni casi si crede di averne individuato alcuni: tra i documenti del tempo della peste c'è una lettera inviata dal gran cancelliere Ferrer al governatore, in cui lo informa di aver saputo che in una casa di campagna di due nobili fratelli milanesi si produce il mortale unguento e di voler prendere tutti i dovuti provvedimenti per assicurare gli autori del fatto alla giustizia (fortunatamente la cosa non sortisce poi alcun effetto). In altri casi, invece, si istruiscono dei processi a carico di presunti untori ed essi sono solo gli ultimi di una lunga serie di procedimenti simili, celebrati già nel XVI sec. in varie parti d'Italia e conclusisi per lo più con l'esecuzione degli accusati a mezzo di atroci supplizi. I processi che si sono svolti a Milano sono tuttavia i più noti e anche quelli più facili da studiare data la presenza di documenti, come dimostra il trattato Osservazioni sulla tortura di cui è autore Pietro Verri: nonostante quell'opera tratti ampiamente il caso, sia pure al fine di argomentare contro la pratica criminale della tortura, Manzoni ritiene che ci sia materiale sufficiente per scrivere un nuovo trattato, che ovviamente non può trovare spazio nel romanzo e che sarà perciò pubblicato a parte, con l'estensione che merita. Per il momento il narratore intende tornare alle vicende dei protagonisti, col proposito di non abbandonarle più sino alla fine.”