Quando ho avuto il piacere di conoscere Robert Redford correva l’anno 2008, quando passò una settimana a Cortona ospite del Tuscan Sun Festival, che ho aiutato ad organizzare per quasi dieci anni. La mia piccola storia, che illustra la persona meravigliosa che era Bob, vale la pena raccontarla perché è stata una delle esperienze più surreali della vita di un ragazzo allora ventenne. Andò così: in ufficio mi chiesero cosa facessi il giorno dopo, e se volevo andare a Roma. Al che io risposi sorpreso chiedendo il perché della gita. Mi fu spiegato che il festival voleva mandare qualcuno per portare Redford a Cortona da Roma, ma che era stato chiesto se lo potessi fare io, per non mandare un’autista ma qualcuno che rappresentasse l’organizzazione. Entusiasta dell’opportunità partii l’indomani alla volta di Roma. Robert Redford uscì sorridente dall’uscita dell’aeroporto di Fiumicino riservata al cerimoniale di stato, con poca calca attorno tranne qualche impiegato di ADR che chiedeva il solito autografo. Mi presentai e gli spiegai chi fossi, lui fu subito molto amichevole, dal primo momento in cui si sedette in macchina con me. Si sedette peraltro, e questo la dice lunga, davanti per parlare con me, disse, piuttosto che dietro. «Call me Bob», disse. Da subito trovammo un’amicizia improbabile nel tragitto da Roma a Cortona. L’Autostrada del Sole, al solito farcita di cantieri interminabili, quel giorno era lenta a scorrere e per una volta nella vita questo lo accettai volentieri. All’altezza di Magliano Sabina, incolonnati nel traffico, Bob si girò e mi disse: «Senti, ti posso fare una domanda? Ma si può fumare una sigaretta in macchina?». Io, che all’epoca fumavo moltissimo, risposi entusiasta: «Stavo sperando che me lo chiedessi! Certo!». Al che – e fate attenzione ad immaginare la scena, perché lo fece come se fossimo stati davanti alla cinepresa – levò dal taschino della sua camicia di denim un pacchetto giallo di American Spirit morbide, quelle con l’indiano disegnato sopra, ne prese con un unico fluido movimento due, le mise tra le labbra e le accese insieme. Poi me ne porse una e mi fece l’occhiolino. Sembrava di essere sul set di un film. Da lì iniziammo a parlare di macchine, delle quali eravamo entrambi patiti – lui amava particolarmente le Porsche, mi disse, al che risposi che ne avevo una, e che nei giorni seguenti la avremmo guidata (cosa che poi facemmo). Quando gli proposi questo, mi guardò e rispose: «Allora ti racconto una storia. Io e Paul Newman…», al che lo dovetti fermare quasi bruscamente, interrompendolo, per spiegargli che se avesse iniziato a raccontarmi una storia, privata, a tu per tu, partendo con «Io e Paul Newman», avrebbe dovuto darmi il tempo di metabolizzare anche solo l’inizio. Lui rise e continuò: «Io e Paul Newman eravamo sul set di Butch Cassidy… e Paul era un grande pilota, aveva questa Porsche bellissima della quale ero molto geloso. Così, un giorno di nascosto, tornai a Los Angeles e andai a comprarne una anche io. Poi senza dirgli nulla, tornai sul set e aspettai che lui andasse a guidare al tramonto come faceva spesso, e lo sorpresi con la mia, nuova fiammante – facemmo tutta la notte le corse nel deserto con le Porsche insieme. Vi posso giurare che ascoltare questa storia, mai letta nemmeno sui giornali, da lui, in una conversazione privata e sopratutto nel modo in cui me la raccontò, mi fece un’impressione che le parole faticano a descrivere. Arrivati a Cortona ci salutammo, ma durante la settimana io diventai un po’ la sua persona di riferimento, e passammo diverso tempo insieme. Sopratutto al di fuori del lavoro.
Ricordo bene quando ricevetti una telefonata da lui, alla quale risposi preoccupato che fosse capitato qualcosa, ma la voce dall’altra parte fu rassicurante: «Nick, no no tutto bene, ma mi annoio… andiamo a bere una birra?». Surreale. Lo raggiunsi a Cortona, e lì poi ne successe un’altra degna degli annali. Prendemmo due birre fresche e ci mettemmo seduti in un angolo remoto della terrazza del magnifico Teatro Signorelli, lui aveva gli occhiali da sole ed un cappellino in testa per non essere riconosciuto e difatti nessuno si accorse che fosse lì, con una semplice birra in mano. Non un’anima. Dopo un quarto d’ora di conversazione, arrivarono ad un tavolo a un po’ di distanza dal nostro tre o quattro belle ragazze straniere… e dico belle perché erano davvero belle. Mi ricordo che mi distrassi mentre parlavo con lui, per guardare loro, un attimo appena. Bob se ne accorse alla velocità della luce, si girò senza farsi vedere, poi mi guardò con un sorriso incredibilmente diabolico e disse: «Ah, ora capisco perché ti distrai! Chi sono?». Al che io risposi che non ne avevo alcuna idea. «Allora scopriamolo!», disse. «Tu sei timido, ci penso io». Prima che potessi fermarlo, si alzò con una risatina e andò verso il tavolo delle straniere, arrivato a destinazione si levò il cappellino, sfilò con calma gli occhiali, fece un gran sorriso, e poi procedette a folgorarle tutte all’istante con quei grandi, immensi occhi azzurri. Senza possibilità di appello. Al che lo riconobbero e tra grandi sospiri ed esclamazioni di sorpresa, fece un altro sorriso e disse, (non lo scorderò mai): «Il mio amico lì», indicandomi, «vorrebbe conoscervi ma è timido, ve lo posso presentare?». Il resto venne da sé, non dico altro se non che la media hollywoodiana di numeri di telefono presi per minuto dalle ragazze fu leggermente diversa dalla media cortonese di riferimento di un ventenne all’epoca. Dopo questo siparietto dovemmo fuggire perché la voce che Redford era al Teatro Signorelli si sparse come un incendio quando tira lo scirocco. Lo riaccompagnai a casa ridendo con lui. Nei giorni successivi, quando non era impegnato con i provini prima del suo spettacolo, mi venne a trovare anche a casa, giocò con i miei cani (che lo adorarono) e mi raccontò di Paul Newman, che stava morendo, e di come questo lo facesse sentire triste nella sua incapacità di fare nulla per aiutare l’amico di una vita e di una carriera. E ancora molte altre storie mi raccontò più in confidenza di cui, per citare Dante, «il tacere è bello, come il parlar colà dov’era».
La sera del suo spettacolo il Teatro Signorelli pareva gremito oltre ogni limite. Lui lesse come solo lui poteva, accompagnato dall’orchestra, brani dei poeti E.E. Cummings, T.S. Eliot ed Edgar Allan Poe. Volarono alla fine una moltitudine di fiori sul palco, molti di più che ad una corrida, da parte di una folta schiera di spettatrici che occupavano, ricordo, interamente almeno tre o quattro file di poltrone. Non escludo ci fosse anche qualche indumento intimo in mezzo alle rose, di tutti i colori possibili, preparate appositamente una ad una per il lancio sul palco da quelle signore eleganti, ormai avanti con gli anni, tornate per un’ora ragazze mentre si perdevano ascoltando Redford, nonostante i settant’anni suonati, nelle parole dei poeti mentre affondavano senza speranza nei suoi incredibili occhi azzurri.
E quindi Bob, ti saluto così, dopo tutti questi anni, con i ricordi di un ventenne che ha apprezzato il modo in cui il più illustre dei divi si divertisse con una semplicità disarmante a passare del tempo con un ragazzo curioso, a cui in una settimana hai insegnato tante cose, sul recitare poesie con gli occhi più che con la bocca, sul parlare con le donne, sull’amicizia vera negli anni d’oro di Hollywood, e sul correre forte con le macchine, che ci fosse o meno una cinepresa davanti. Voglio immaginarti lì oggi, dentro la storia che mi hai raccontato il giorno che ti ho conosciuto, con Paul Newman che ti sorride, su quelle due Porsche che alzano nel vento due scie fitte di polvere da dietro, e affiancate corrono e corrono, insieme verso il tramonto nel deserto.
Nicholas Baldelli Boni
Ndr: Nella foto collage di corredo , Nicholas Baldelli con Robert Redford al Teatro Signorelli nel 2008.